DOMITOR di Nadia Martines

DOMITOR di Nadia Martines

DOMITOR

Domitor, contrazione dal latino Dominator, fu, nel lontano 1895, il primo nome scelto dai fratelli Lumiere per la grande invenzione del XIX secolo: il cinematografo.
Nella loro idea, registrare e salvare per sempre storie di vita vera o immaginata appariva come una sorta di potere sulla morte o sulla caducità delle cose. Inoltre l’osservazione frontale che permetteva il cinematografo, come per il palco centrale del teatro destinato alle personalità illustri, poneva incosciamente lo spettatore al di sopra degli stessi personaggi, gratificandolo nel poter guardare senza essere visto. Un dominatore del mondo, a cui era concesso esprimere la propria opinione a voce alta fumando una sigaretta con opportuna disinvoltura.
Probabilmente sono proprio queste le motivazioni che hanno reso il cinema irresistibile sin dalle sue primissime manifestazioni. Un sogno ad occhi aperti ma anche un simulacro della realtà, uno strumento di evasione quanto di riflessione, il mezzo culturale ed espressivo più diretto e comprensibile per tutti.
Il cinema nella sua più ampia accezione, nonostante i naturali mutamenti che lo hanno caratterizzato negli anni, rimane la forma d’arte più amata nel mondo.
Salvaguardare l’idea primordiale di “cinema” inteso come luogo in cui la settima arte viene rappresentata, come tempio personale, rifugio o nascondiglio, luogo di evasione ma anche di aggregazione, è fondamentale e doveroso nei confronti di una forma espressiva di tale potenza. A proposito di mutamenti, è ormai risaputo oggi, ai tempi della rete, del progressivo abbandono della sala da parte dello spettatore del prodotto cinematografico, con la conseguente chiusura definitiva di luoghi storici e istituzionali, patrimoni culturali delle città. Un fenomeno grave e inspiegabile. Guardare un film al cinema continua ad essere tutt’ora un’esperienza decisamente più intensa che in altri luoghi o con i moderni mezzi tecnologici di cui tutti disponiamo, perché è unica e irripetibile e rimane (citando la frase dal film “Hugo Cabret” di Martin Scorsese, dedicato al regista illusionista George Méliès) “L’isola che non c’è, L’isola del tesoro e Il mago di Oz messi insieme”. La sala cinematografica è lo spazio in cui ci si abbandona al buio avvolgente, in cui l’immagine ci sovrasta, riempie i sensi e ci regala emozioni vere.
Per superare il problema della desertificazione delle sale cinematografiche basterebbe una collaborazione collettiva. Chi le gestisce dovrebbe essere capace di fidelizzare il pubblico, invogliandolo con servizi e comodità al passo con i tempi e proponendo una programmazione variegata che soddisfi tutti, comprese le vecchie pellicole che hanno fatto storia, in modo tale da coinvolgere ed istruire anche le nuove generazioni. Ma anche il pubblico può e deve fare la sua parte, preferendo sempre la visione di un film al cinema per la sua unicità, ripopolando così il luogo in cui esso è nato e dove dovrebbe continuare a vivere.
Nel buio della sala immaginiamo di essere soli, inosservati, e siamo così liberi di dar sfogo alle emozioni, che sfociano incontrollate sul nostro viso. Puntiamo gli occhi sullo schermo e seguiamo il film che sta per iniziare, in silenzio, dominando il mondo seduti nella nostra poltrona “regale”.

 

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