Cent’anni di SOMMITUDINEdi Tiziana Nicolosi

Cent’anni di SOMMITUDINE
di Tiziana Nicolosi

 

 

Cent’anni di SOMMITUDINE

Dopo svariati assopimenti e grasse dormite, ho completato la lettura di Madame Bovary di Flaubert. Mai stata più felice della morte di una coppia della letteratura. Mea culpa, è come leggere Siddartha, Christiane F, noi i ragazzi dello zoo di Berlino, Il lupo nella steppa, Bukowski tutto, Jodorowsky pure, dopo essere entrati nella maggiore età. Nella vita ci sono lacune che non andrebbero mai colmate.

Di contro avere di recente respirato per una buona mezz’ora entro le mura carcerarie dello spazio-prigionia vissuto da De Sade allo Château De Vincennes, a Parigi, mi ha portata all’approfondimento di un’opera e di un autore che avevo banalmente sottovalutato.

A parte qualche eccessiva deriva descrittiva, che può annoiare quanto un film porno se non si è propensi al genere ed è il mio caso,  ma anche i grandi Proust o Joyce ne fecero terreno fertile, trovo che tutti i miei pregiudizi a lui relativi, siano vertiginosamente crollati. Le dettagliate descrizioni in fondo, servono proprio a incatenare nell’essenziale relazionale narrativo quello che è un delirio lucido, feroce, affabile, onesto, un entwirklichung scheleriano, mediante cui rinascere continuamente.

È risaputo che la letteratura contenga in sé i germi di molte altre discipline che si sono via via affermate e autonomizzate, specializzandosi, settorializzando, ma ogni volta che percorriamo un’esperienza  conoscitiva forte, ci rendiamo conto di quanto evidente sia il processo di analisi, di elaborazione e sintesi intellettuale, sociale, antropologica, che viene compiuto dallo scrittore e dallo stesso lettore al momento in cui entra in contatto con un certo tipo di stimolazione e di apprendimento culturale. Come un incontro amoroso che cessa di vivere nella dimensione di uno svolgimento quotidiano condiviso e dualmente-vicendevolmente riferito, ma che rimane fecondo nella meccanica individuale.

De Sade è un estremista, ma questo rientra nell’ambito di una coerenza psichica, di una scelta stilistica che investe il suo sentire e la sua maniera di esprimersi civicamente e artisticamente.  È impossibile scindere le due anime, quella del narratore e quella dell’uomo d’azione. De Sade fu un rivoluzionario, davvero, si diede totalmente, sperimentò e bruciò ogni tutela della sua persona in nome della ricerca della verità, della libertà, e solo sul precipizio, ha volteggiato su se stesso, in nome della letteratura, essa stessa turbine terapeutico e al tempo stesso dovere-rigore filosofico, argomentativo, politico, esistenziale.

La sua non fu una posa, non un espediente, fu un vigoroso esempio di perfetta realizzazione del tributo alla scienza della letteratura. Non avremo mai il suo coraggio. E del resto egli non fu un eroe. E se fossimo scellerati alla sua maniera, di questi tempi, saremmo macchiette. Non insoliti schiavi di una epocale finzione cinematografica. Personaggi mediocri di una commedia da poco. Ma possiamo augurarci di praticare quel connubio stretto tra immaginazione e realtà, che ha radicalmente caratterizzato la sua vita. Dobbiamo esercitarci a orientare il male, a non esaltare il bene e i suoi simulacri. De Sade un mentore, il nostre essere, la musa a coniugarne il verbo. Nell’esagerazione, nell’esasperazione di concetti e atti, De Sade si scavava la fossa e toccava la dignità del vero, del possibile. Regalando all’arte, uno dei picchi massimi di espressione storica. Donando ai lettori, ai cittadini di tutti i tempi, la forza, la bellezza, il godimento di una mente superiore, di una visione caparbia, ironica, seducente, sprezzante, ragionata, maestosa.

Non credo a tutto ciò che dice, e non ci credeva neanche lui, facendone piglio vigoroso, nei fiotti del filosofare. Sta qui la sfida, nel superarsi, in virtù dell’opera, lo stesso implodere, l’ardire, il divenire, ci portano a non ritenere funzionali, complete o assolute, determinate certezze o essenze significanti, idee, illuminazioni; lo stesso discorrere che racchiude e sospinge, in un gioco di specchi e fluttuazioni, però, transita, aggancia scelte, azioni, posizioni, nel sacrificio, nell’atto espiatore.

Io, da mite vacanziera, sono finita in quel castello dietro invito, un invito alla scoperta, un invito alla solitudine, alla mia preziosa e intima solitudine, prendendo un autobus verso l’opposto di una Parigi frenetica, a tratti dimentica della sua stessa poetica, romantica rappresentazione, negata dal corso della storia, dall’attualità di nuove forze brutali come l’Isis o l’incoscienza generalizzata e nel contrastassimo cielo di una curiosità bambina, affamata, piena di fiducia, nella contraddizione del sentire, in quella presenza-assenza, tra quel piacere-dolore che De Sade ha scavato senza paure e con tutte loro, per corrervi dentro, ho raggiunto il senso, il completamento del mio viaggio verso un esterno autoriferito. Quei muri, quel grido, il silenzio, i corvi, il vento, la Francia. Io.

 

‘Ai miei concittadini, il cammino che abbiamo compiuto dall’89 in poi comportava ben altre difficoltà di quello che ci resta da percorrere, e lo sforzo per orientare l’opinione pubblica a ciò che vi propongo è certamente meno oneroso di quello che abbiamo sostenuto per tormentarla in tutti i sensi all’epoca della distruzione della Bastiglia.

… Sostituite le sciocchezze deifiche, con cui affaticavate i giovani organi dei vostri bambini, con eccellenti principi sociali; invece di imparare a recitare futili preghiere che si vanterebbero di dimenticare appena compiuti i sedici anni, siano istruiti sui loro doveri nella società; insegnate loro ad amare virtù di cui un tempo osavate appena parlare e che, senza le vostre favole religiose, bastano alla felicità individuale: fate sentire loro che questa felicità consiste nel rendere gli altri fortunati come desideriamo esserlo noi stessi.’

‘De Sade – La filosofia nel boudoir

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