uber_addicted #3 – 13 febbraio 2013

uber_addicted #3 – 13 febbraio 2013

Live concert

Francesca Cannatella
Oswald Black Banda 

 

Esposizioni

VladyArt
Iolanda Mariella
Carlo Panebianco

 

Cucina artistica

Annalisa e Vicio
Edificazioni organolettiche (Special guest: Aspic alla vodka)

 

Oswald Black Banda

É una realtà fantasma all’interno della scena catanese. Esiste già da qualche tempo ma ha documentato pochissimo la propria attività.
Nasce come progetto benefit per una raccolta di fondi destinata all’acquisto della bara del fu Lee Harvey Oswald, il presunto assassino di JFK, messa all’asta tempo fa.
Oswald Black Banda è un trio che suona musica di razza. Non musica “etnica”, no, musica di RAZZA. Perché i suoni della Banda risalgono ad un tempo in cui la cattiva coscienza dell’umanità, l’antropologia culturale e il politically correct ancora non avevano trovato un termine alternativo a “razza”. Race music, come “Race records”, i “Dischi della razza”, commercializzati intorno agli anni ’20, prima della grande depressione, vettori di successo per calibri come Bessie Smith e Ida Cox. Race music per chitarra elettrica, chitarra acustica, banjo, armonica, stomp box, maracas, latrati e via: precipitare all’inferno sentendosi condannati giustamente. Il grasso delle nostre anime che sfrigola sulle graticole della vostra domenica fuori-porta. Musica per carni abbrustolite. Musica per fuorilegge, ubriaconi, puttane, papponi. Musica sacra. Il giudizio universale. Folk. Blues.
La “S-quadratura” del cerchio viene messa in atto attraverso la memoria storica del Reverendo Boe Phonkio (chitarra, ammennicoli e voce), le esplorazioni chitarristiche di S. F. Sandpaper e lo stocastico dominio di beat e caos di mr Disco 5Ruins.
Più che un percorso di ricerca quello di Oswald Black Banda è un percorso di rinvenimento, di dissotteramento delle ossa antiche di Dock Boggs e, al contempo, un esperimento di moderna implantologia sulle protesi di latta dei Bassholes, il tutto col testo di neurologia scritto dai Suicide.
L’idea di suonare “Veri” è quanto di più lontano da Oswald Black Banda. Il contrario è proprio nel concepire una menzogna confezionata con sfacciataggine, il fine è nel riuscire a vendervi un falso d’epoca, lasciandovi consapevoli della fregatura ma giubilanti per esservi alleggeriti il portafogli, la più sublime delle aspirazioni.
Fatevi raggirare.

Francesca Cannatella

É una chitarrista degli anni zero. Ascriverla ad una “Maniera” in cui rientrino personaggi come, che ne so, Kaki King, sarebbe una scortesia. Francesca Cannatella si rifà direttamente agli originali: John Fahey, Davey Graham, Jack Rose.
Suona una chitarra il cui manuntentore ufficiale è suo padre, che NON è un liutaio, e, dal vivo, prova il salutare disagio di essere al centro dell’attenzione e questa cosa è un plusvalore per la sua musica.
La musica della Cannatella, è una giustapposizione genialoide di microstrutture blues, folk britannico e avant. Sforna temi memorabili ma senza crederci troppo e per questo ogni suo brano presenta un momento, anche infinitesimale, di divagazione eterea. Tuttavia l’aria incurante e low profile di cui permea la sua musica non riesce a distrarre dalle sorprendenti architetture che un’accordatura aperta può concepire quando la mente che la governa non è del tutto dritta.
Cambierà accordo quando meno ve l’aspettate e l’accordo che seguirà sarà proprio quello sbagliato. Fantastico.
Complicato trovare una definizione di “genere” per quello che fa ma chiunque si cimenti nell’impresa potrebbe pensare a termini come COSMIC-AVANT-PROGRESSIVE-BLUES. Se vi pare poco.

VladyArt

É nato a Catania nel 1974. Laureatosi in decorazione presso l’Accademia di Belle Arti di Milano, ha vissuto tra la Scandinavia, l’Italia e l’Irlanda. Nel 2003 avvia la sua ricerca post accademica, sotto lo pseudonimo di VladyArt (Vlady è il suo vero nome di battesimo). Dal 2005 inizia a concentrare la sua attenzione sullo spazio esterno, migrando progressivamente dal disegno-pittura con tema urbano all’arte urbana. Pur consapevole del crescente interesse verso il nuovo muralismo e i nuovi artisti degli stencils, il suo avvicinamento all’arte non commissionata e nello spazio pubblico avviene quasi inavvertitamente, in modo spontaneo, fuori da ogni chiaro progetto e senza un vero riferimento.
Inizialmente vicino alla street art più pittorica e decorativa, con particolare interesse alle forme tridimensionali del tessuto urbano, ha toccato anche molti degli altri aspetti più identificativi del genere, come il sabotaggio artistico, lo shopdropping o la guerrilla art a sfondo sociale. Anche nella sua veste più decorativa, priva di contenuti sociali e politici, ha portato il messaggio di riconquista del territorio, dello spazio sottratto al degrado o all’oblio. Il contesto in cui ha operato dal 2008, a Catania, dove tutt’ora vive, era di fatto privo di significativi interventi del genere (oltre i muri quindi).
Dal 2010-2011 rivolge la sua attenzione verso una street art più comunicativa; il suo lavoro diventa via via sottile, effimero, concettuale, maggiormente legato all’esperienza fotografica che a quella vissuta in strada. C’è così molto meno spazio riservato all’estetica decorativa, ma non mancano alcuni dei suoi parametri iniziali: le esperienze visive messe al servizio di tutti, anche le più fugaci ed essenziali, non possono prescindere dalla loro immediatezza e comprensibilità, poiché l’occhio umano vede solo ciò che capisce. Per certi versi e in alcune ultime opere, c’è quasi la volontà di abbandonare l’arte così come viene comunemente intesa, quella complessa e densa di tecnicismo.
VladyArt non si muove dentro un unico tema, né è sempre identificabile da un unico soggetto o da una specifica tecnica, ma ha espresso in maniera notevolmente eterogenea il suo pensiero e senso dello humor, il suo modo di percepire la realtà. La ricerca è una parte essenziale del suo percorso. Per esprimere la sua creatività, ha spaziato confortevolmente dalla grafica alla pittura, dall’istallazione al video, scegliendo nelle tecnologie digitali spesso la filosofia “low-tech”, basilare e priva di virtuosismi.

Per Uber Addicted presenta un trittico di collage, ricavati da locandine e manifesti strappati unicamente a Berlino, finiti con stencil a spray. I collage trattano la politica, lo svago e la trasgressione sessuale. Oltre i collages l’allestimento prevede altre opere inedite, con contenuti presi direttamente dal lavoro in strada e dal suo immaginario.

Iolanda Mariella

Dopo avere frequentato l’Accademia di belle arti di Catania, si dedica all’arte intesa come mezzo per potere mettere al mondo le idee che le frullano in testa, ampliandone l’esperienza in fase di concepimento dell’opera. Ad oggi si è occupata di creazione set per still life, della realizzazione di opere pittoriche su commissione, di restauro pittorico; ha svolto l’attività di graphic designer, illustratrice, attrezzista di scena, designer e prototipista del gioiello; ha curato scenografie per set di ripresa di spot e filmati istituzionali.

Le opere in esposizione per Uber Addicted nascono dall’esigenza di spogliare gli oggetti della loro funzione originaria per renderli indipendenti e al servizio della dimensione favolistica propria di una forma di surrealismo visionario, capace di portare il fruitore verso una percezione intellettuale ed estetica dell’oggetto. Con la serie ‘Oggetto quasi’ sotto il brand di cinque handmade, assistiamo alla rivisitazione degli oggetti, incastonati in fondali decorati da vecchie carte da parati. Il sapore è nostalgico, malinconico, richiama il passato in una costruzione nuova di senso.

Carlo Panebianco

Dà vita a un forte lavoro introspettivo, prendente spunto dai sentimenti umani in contrasto tra loro. Le sue pennellate sono il frutto di un viaggio tra amicizia, complicità, odio, rabbia, solitudine, sofferenza. Dimensioni emotive che accomunano l’uomo di ogni fascia sociale e culturale. Motore trainante l’amore come generatore di creatività.