L’ecologia nella land art di Vlady Art

L’ecologia nella land art
di Vlady Art

 

 

L’ecologia nella land art

La land art non ha bisogno presentazioni, è nell’immaginario collettivo, unione tra ambiente e opera umana, ovvero arte. Dici land art e pensi subito a emblematiche opere monumentali:  gli “impacchettamenti” di Christo o la “spirale Jetty” di Robert Smithson. Questa spettacolare corrente artistica si sviluppa negli ampi spazi degli Stati Uniti d’America, contemporaneamente ad altre “insofferenze” umane nei riguardi dell’arte preesistente, come Fluxus, body art, arte povera e minimale, espressioni estreme e in collisione con la tradizione. Lo spirito land art viene riassunto nelle poche e potenti parole, pronunciate da Micheal Heizer: “I musei e le collezioni sono stracolmi, i pavimenti stanno per cedere, ma lo spazio reale esiste”. La fuga verso un’arte totale, indipendente dagli spazi chiusi, pure effimera e mutevole come l’ambiente, era cominciata.

Ma se land art è sinonimo di ambiente, possiamo dirla ecologica? No di certo, per mano di alcuni suoi celebri artefici, specie i primi. Il termine definisce l’arte che sta in spazi aperti, spesso disabitati, sulle montagne, nei deserti, sulle coste. Non specifica alcun concetto ambientalista, se non in modo indiretto: l’arte mette l’accento su luoghi bellissimi e selvaggi, ma lo fa usando le norme umane. Chilometri di materiale plastico, sbancamenti, scavi, gretti, colate di cemento e piantagioni di ferro: non quello che oggi chiameremmo opere “a basso impatto ambientale”. D’interventi invasisi nel nome dell’arte e della ricerca ne sono stati fatti parecchi. Non è giusto porre limiti all’arte ed è giusto che ci sia stato un tempo in cui la land art si sia potuta esprimere in tale maniera, certo, ma oggi non sarebbe altrettanto semplice. Christo, anche se non lasciò i chilometri di plastica attorno agli atolli, di certo li dovette commissionare, far produrre. Oggi sarebbe condannato già solo per la CO2 prodotta dai voli aerei serviti per le perlustrazioni. Robert Smithson, pur di disegnare grandi e suggestive spirali, sbancò la costa come si fa per la costruzione di piccoli moli d’attracco. Poche volte nell’arte si era visto usare il bulldozer! Walter de Maria, seppur investigando la natura più misteriosa, come i fulmini, non esitò a piantare chilometri di ferro nei deserti. Micheal Heizer portò in luoghi incontaminati le forme tipiche della contaminazione umana, cioè le geometrie, le linee rette e le forme architettoniche.
Arrivò poi un artista che non amava definirsi land, eppure manifestò l’anima più “ecologica” tra tutti. Era giunto il momento di Richard Long (Bristol, 2 giugno 1945). Long, amante di lunghe “passeggiate”, maturò un orientamento sicuramente più naturale. Fece arte con la terra, usando le pietre, le foglie, la legna e il fango, senza processi di lavorazione o materiali “tecnologici” (persino il ferro). Long iniziò a fare arte come fa un montanaro, creando gli “omini”, cioè ponendo massi uno sopra l’altro per segnalare un percorso, o per salutare l’arrivo sulla cima di una vetta. I suoi circoli di pietre erano come mistici, in sintonia con la sua Gran Bretagna dei megaliti, dei primitivi calendari solari.
Dopo Richard Long, un altro Inglese a portare avanti i princìpi ecologici e armonici nell’arte fu Andy Goldsworthy. Grazie al suo occhio da fotografo, concepì una land art più effimera, giocando con i colori della luce, delle stagioni, degli elementi, in ambienti anche più piccoli e intimi. “Non posso scegliere i materiali da usare, devo rassegnarmi a lavorare insieme alla natura”: per Goldsworthy è quindi imprescindibile ciò che la natura offre nel metroquadro e ci insegna che si può proprio fare arte con tutto, anche con la propria sagoma, lasciandola nello spazio, seppur per pochi minuti.
Venendo all’Italia, uno tra gli artisti land più ecologici (corrente “arte natura”) è indubbiamente il maestro Alfio Bonanno. Nato sulle pendici boscose dell’Etna (Milo) nel primo dopoguerra, Bonanno ebbe una formazione internazionale, maturata tra l’Australia (dove migrò da bambino con i genitori) e la Danimarca, dove vive dal ‘75. Bonanno è mosso da un’attenzione per l’ambiente che include il paesaggio, gli animali, le persone. Le sue opere suggeriscono la fruizione contemplativa, non il distacco. Molto legno, molti intrecci, come quelli dei canestri cari all’artigianato agricolo. Ogni opera nasce dall’attenta interpretazione antropologica del sito, senza però escludere gli insetti o le maree. Più che l’arte dell’esaltazione estetica, quella dell’italiano è una donazione dell’artista al luogo, alla sua gente, un landmark ambientalista. Anche nel caso di Bonanno il rispetto è massimo e, nel nome dell’arte, non un tronco viene abbattuto né un ruscello deviato, anzi: è un’arte tesa alla vita, dove le istallazioni vegetali diventano pure la casa di animali lacustri e uccelli notturni. Una riconciliazione con il creato, funzionale.

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