È nella nostra natura ferire la natura di Tiziana Balestri

È nella nostra natura ferire la natura
di Tiziana Balestri

 

 

È nella nostra natura ferire la natura

Sia Platone che Aristotele vedevano nella mimesi la rappresentazione della natura. Ed è con istinto irriducibile che il poeta la osserva e ne descrive la bellezza, inneggiandola nei suoi versi. Dal cibo e dall’aria che respiriamo, comincia a delinearsi l’idea di un ambiente sano ed ecosostenibile. Eppure, rispettarlo, significa tutto e niente se questo rispetto, che affolla tanto i nostri bei discorsi, esiste al di fuori della dignità personale, dai toni piuttosto assoluti e mutevoli per una consapevolezza mediata dal tempo in cui l’uomo ha rinunciato a sentirlo come un valore da tramandare o come il fenomeno intimo di una volizione spontanea. Il rispetto è qualcosa che non si può né chiedere né pretendere. Come un tacito accordo basato sulla mutua convinzione che al di fuori di quest’ultimo resta ben poco da avvalorare, l’ambiente non chiede e non pretende da nessuno che lo si rispetti. Lo dà per assodato. Non avverte l’asprezza psichica del tradimento come una sconfitta personale, sente bensì il puro e semplice dolore di un pugnale inferto al cuore della sua essenza. Dilaniata dallo scempio delle sue proprietà biologiche, chissà, forse il rispetto per l’ambiente in cui viviamo tesse le lodi o persino acute parole di biasimo ai pensieri che produciamo? Una civiltà ecosostenibile attraversa la strada delle risposte, nonché quella di un progresso urbano allineato ai ritmi e ai bisogni dell’uomo, dal primo all’ultimo dei suoi respiri.

Oltre che una piena realizzazione individuale, non è questo un dovere collettivo? Le condizioni perché possa realizzarsi un benessere socio-ambientale condiviso sono in qualche modo stabilite dalla consapevolezza che, laddove esistono i presupposti per creare un’economia verde, esiste già la presa di coscienza del rispetto che la natura esige da parte dell’uomo.

Soprattutto in un momento di pesante crisi come il nostro, la sostenibilità è vista sempre più come un obiettivo prioritario di sviluppo nella gestione delle politiche ambientali. Questo termine è stato utilizzato in numerose discipline e in una varietà di contesti. Il suo significato ha acquistato, via via nel tempo, una connotazione che dipende fortemente dal contesto culturale in cui viene applicato. Il suo uso, basato su principi socio-economici, è quindi legato ad una definizione di sostenibilità di ampio o ristretto respiro che verte a precisare in modo esplicito il contesto temporale e spaziale che una data società attraversa al fine di differenziarla da un’altra e la cui sopravvivenza umana è misurata e mantenuta su scala globale, richiedendo così dei sistemi di supporto politico-sociale stabile e basale.

Anche l’educazione per l’ambiente attraversa la storia del cambiamento rivelando una stretta connessione tra le mutevoli preoccupazioni ad essa associate e per l’appunto legate al modo in cui l’educazione ambientale è pertanto definita, nonché promossa.

Con approccio educativo crescente, è solo a partire dal 1990 che sono state affrontate le tematiche per il miglioramento dell’ambiente come un obiettivo vero e proprio da realizzare. L’educazione a favore di una sostenibilità a lungo termine si è posta al centro del dibattito di oggi, assai più imperniato su approcci diversi e meno convenzionali rispetto al passato.

Fino al 1960, le preoccupazioni legate all’ambiente hanno giocato un ruolo pressoché fittizio sin dalle prime fasi dell’industrializzazione. Con l’emergere, nonché il dilagare, di tali preoccupazioni, una gran quantità di lavoro è stato ulteriormente promosso per la diffusione di una sostenibilità economica e sociale, inserita all’interno di un programma e di un’agenda politica di più ampia portata, dove termini come il triple bottom line, o lo​​ sviluppo sostenibile, sono stati adottati in modo piuttosto reversibile ed intercambiabile. Fin qui è emersa la consapevolezza che la piattaforma politica della sostenibilità sociale è nettamente distinta da una qualsiasi concreta trattazione sulla sostenibilità economica o ambientale. Nel 1980, la World Conservation Strategy ha rilasciato una definizione a favore di una collocazione terminologica strategica, legata cioè alla distruzione e al degrado ambientale come risultato della povertà, della pressione demografica e sociale e, non ultimo, di un’iniquità legata a ragioni di scambio economico. Lo sviluppo sostenibile è stato così definito come “il mantenimento dei processi ecologici essenziali e dei sistemi di supporto alla vita, compresi quelli degli esseri umani.”

Ulteriori definizioni di sviluppo sostenibile presuppongono, invece, la necessità di uno sviluppo non più imperniato sulle strategie promosse per il mantenimento delle condizioni ambientali attuali, ma hanno favorito un’agenda internazionale basata sulla protezione dell’ambiente attraverso la gestione delle risorse.

Le controversie sulla definizione di sostenibilità non sono mai mancate ed è stato un compito davvero problematico il suo inserimento all’interno di un programma di sviluppo. La critica più estrema proviene dalla necessità di soddisfare le esigenze di tutte le parti interessate, una cortina fumogena dietro la quale le imprese possono portare avanti le proprie attività senza ostacoli di qualsivoglia natura ecologica o ambientale. In teoria, si è cercato davvero di dare una soluzione al problema della salvaguardia dell’ambiente al fine di preservarlo per le esigenze di generazioni future. Ma purtroppo la vaghezza degli obiettivi ha spostato l’attenzione a sostegno dello sviluppo sostenibile su aree di povertà estrema, tendendo così a eludere il vero problema, secondo alcuni, scomodo alla necessità di limitare il consumo da parte dei ricchi.

La questione è di portata abbastanza significativa dal momento che uno dei principali problemi legati al termine “ecosostenibilità” è di natura essenzialmente denotativa, oltre che connotativa. La maniera in cui lo si utilizza per descrivere un’azione sul tutto, incluse le parti stesse che lo formano – dai rifiuti di imballaggio al riscaldamento globale – ha creato svariate perplessità in tal senso. Alcune questioni ecologiche sono ben più gravi e difficili da affrontare rispetto ad altre poiché, laddove il riscaldamento globale rappresenta una minaccia alla vita e alla civiltà umana, i rifiuti di imballaggio non lo sono. E se la riduzione dei rifiuti può ridurre il consumo energetico, le emissioni di gas a effetto serra non possono essere significativamente ridotti attraverso il riciclaggio, l’efficienza produttiva e/o la conservazione del patrimonio naturalistico in quanto tali. Il facile accostamento di queste tematiche ad altre di portata economica ben più ampia rischia di disperdere il tutto nel calderone delle priorità internazionali.

Questo è un problema da affrontare in maniera spesse volte disgiunta da ogni altra considerazione di tipo geopolitico o globale; e, tanto per riportare la questione su di un piano concreto e reale, sventola sotto gli occhi di tutti la costitutiva bandiera italiana: il valore figurato dei suoi colori reca con sé delle caratterizzazioni emotive che, attraverso i millenni, continuano a filtrare ancor oggi nell’universo dei significati in cui siamo immersi. Ecco, nella lingua contemporanea, mi piacerebbe tanto poter sradicare il verde della nostra fulgida bandiera tricolore dall’idea di essere al verde poiché siamo poveri – unitamente al rosso del conto in banca – e di sostituirlo con un verde assai più legato alla natura e all’economia. Sul bianco, non oso pronunciarmi oltre.

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