Tutti i dotti che hanno scritto sul dadaismo l’hanno fatto secondo criteri che erano quelli contro cui il movimento si scagliava. Dalla Fontana di R. Mutt, nota anche come l’orinatoio di Duchamps, al cesso d’oro di Cattelan (che fine provocazione, signori!), non si può che notare quanto la storia di questa non-avanguardia sia quella di una progressiva sconfitta. Molto vittoriosa. O viceversa. Basta un ossimoro e siamo a cavallo. In fondo, il sistema ha sempre prima disinnescato ogni bomba e poi l’ha venduta. Se DADA si proponeva come anti-arte e combatteva l’arte con l’arte, allora ha vinto. O anche disastrosamente perso. Perché, diciamocelo, il ready made è una scappatoia abusata, l’ironia una maschera indossata come dress-code alle inaugurazioni trendy (mamma mia, questa frase sembra insieme tratta da una rivista d’arte contemporanea e da un film dei fratelli Vanzina!). La differenza, possiamo pensare, stava nell’assenza di messaggio. Quindi, che cosa scrivere su DADA che Wikipedia non illustri già? Inventiamo slogan? Se G. Benn diceva che si è caduti dal cosmo alla cosmesi, possiamo benissimo concludere che lo stesso scivolone (non la caduta gloriosa di Bataille, probabilmente) ci ha portati dal Dasein al design. Per rispetto, bisogna scrivere un articolo rimanendo contro gli articoli. O estrarre parole a caso da un cappello. Per la miseria, si rischia comunque di produrre un best seller – e le classifiche lo dimostrano. Quindi non farò questo articolo. Scusate tanto.