‘L’ovvio delle meraviglie’ di Cristina Pantellaro

‘L’ovvio delle meraviglie’ di Cristina Pantellaro

‘L’ovvio delle meraviglie’ di Cristina Pantellaro

 

 

A Ozzano Taro si trova una cascina immersa in un spazio verde ondulato e incastonata in un ritaglio di cielo. Questa cascina, un tempo dimora di una famiglia di mezzadri, oggi è un museo, intitolato a colui che l’ha inventato. Molti gli attributi e le metafore per definire questo museo, non-museo ed anche installazione. Bosco delle cose, della vita, delle idee e della fantasia; museo dell’ovvio e del quotidiano; museo della dignità; dell’esistenza; della memoria; museo che raccoglie “oggetti dall’estremo ieri all’estremo domani”, ma forse occorrerebbe coniare un neologismo a definirne i connotati originali.

L’inventore di questo spazio si chiama Ettore Guatelli. Nato nel 1921 è figlio di contadini e da adulto maestro “di campagna” come ama definirsi. Deve “la metà di quel che è diventato” ad Attilio Bertolucci che lo ha erudito aprendogli lo sguardo ad orizzonti e conoscenza. Gli dona un “passaporto” per viaggiare nel mondo.

Il Museo Guatelli accoglie circa 60.000 oggetti del “quotidiano” collezionati dagli anni ‘70 a poco prima della morte, avvenuta nel 2000.

Guatelli trascorre molto tempo tra rottamai, raccoglitori, antiquari; modifica e riallestisce di continuo le stanze del museo tessendo e intrecciando relazioni con circa 70 fornitori che gli fanno proposte e accolgono le sue richieste sollecitati, di frequente, alla ricerca di oggetti di scarso valore che altrimenti rischiano di andare perduti e che il maestro Ettore vuole preservare dall’oblio.

I principali fornitori arrivano dall’Appennino e dalla bassa cremonese e parmense e raccolgono gli oggetti dalle case contadine e da luoghi di produzione, anche in Piemonte e in Liguria.

Sono le lacerazioni delle cose che interessano a Guatelli, le riparazioni, le ricuciture, le modificazioni che intervengono sugli oggetti ad opera dell’uomo che li usa, e del tempo che li logora. Gli oggetti parlano e raccontano storie di vita, esperienze, abitudini. Le “sue cose preferite”, per citare la musica di John Coltrane, sono quelle usurate, rattoppate, riusate. Sono proprio quei segni che definiscono il tipo di narrazione degli oggetti che cosificano condizioni sociali, professioni, desideri, sogni, ambizioni, strategie, immaginazione, creatività e ingegno.

Porta a casa delle “robe brutte”, dichiara in una intervista breve, come tutte quelle che si possono trovare navigando sul web. Gli stessi parenti che un tempo vivevano in quella cascina non comprendono questa sua ossessione totalizzante, immaginifica e lo compatiscono. A poco a poco vengono espulsi dalla stessa casa che li ospitava che si riempie di oggetti d’ogni genere. E solo quando arriveranno i primi riconoscimenti i parenti cominceranno a comprendere la visione di Guatelli.

L’obiettivo è infatti quello di realizzare una grande installazione, una grande opera dell’umano, in cui l’oggetto materiale è testimonianza, scrittura di esistenze, progetto di riflessione nei suoi particolari, nel suo essere “migrante” e cioè nelle trasformazioni che subisce ad opera dell’artigiano che lo riplasma attraverso nuovi assemblaggi e ne muta caratteristiche e funzionalità.

Il museo è suddiviso in due parti. La casa di Ettore Guatelli, luogo del collezionista e il museo-installazione.  Impossibile poter descrivere quante cose vi siano dentro, fuori, sotto, sopra, attraverso, accostate, ordinate, accatastate in ogni luogo.  La prima sensazione è di trovarsi in una wunderkammer in cui gli oggetti si irradiano in ogni angolo dello spazio. Stupore, spaesamento, gli oggetti si imprimono nello sguardo altrui.

Scodelle, scarpe, coltelli, falci, orci, insegne, lucerne, orologi, botti, pale, forbici, utensili d’ogni sorta, attrezzi d’ogni genere, d’ogni grandezza, d’ogni misura, tutti diversi gli uni dagli altri, specchio dello spirito del tempo.  Sono sospesi sui muri, sui soffitti, in ogni luogo tracciano linee ondulate, spirali, percorsi, fili sottili della memoria.

Luogo emotivo per eccellenza, suscita un insieme di sensazioni. Anche per me, tra quella moltitudine di oggetti in disuso, ve ne sono molti mai visti prima, ma anche alcuni che mi ricordano l’infanzia, che sono appartenuti alla mia tavola o alla mia casa o con i quali ho visto la gente che mi circondava adoperarsi in qualche faccenda. In quel museo prima o poi, sospesa ad un soffitto o esposta in uno scaffale, ci sarò anch’io, una immagine di me, di una vita che mi è appartenuta.

In quel museo c’è un non so che di umoristico anche, lo individui nelle pieghe dell’oggetto, nell’accostamento di materiali e nella trasformazione ad opera di artisti “popolari”, visionari e curiosi.

Gli oggetti sono originali, divertenti, mi sorprendono per l’ambiguità della condizione di passaggio, di transitorietà che acquisiscono, nell’essere stati trasformati, accostati ad altri oggetti. Una dualità che mostra quello che un tempo sono stati ed anche quello che sono diventati e la cui collocazione, mai casuale, spesso sollecita a nuove, altre, interpretazioni.

Dopo una grande scala a gomito si giunge su un davanzale con una porta con una insegna che preannuncia “Pericolo! Organi in moto” ed un’altra “è obbligatorio portare l’elmetto”. È la stanza dei giocattoli.  Mi colpisce la collezione di statuine ricavate dall’assemblaggio di materiali organici. Sono ossa di animali lavate e sbiancate a cui vengono associate noci, castagne, scorticate solo da una parte. Guatelli come quando si guardano le nuvole legge ed interpreta le forme di questi materiali e così un osso irregolare diventa il corpo di una signorina con la gonna fluttuante e la noce scorticata, un volto espressivo, rugoso, mutevole al passare del tempo.  Lo stesso fa con pezzetti di legno trovati nel fiume e con tubetti di alluminio. C’è il signor Guttalin per esempio, il signor Sensodyne e mister Bostik. C’è poi una intera collezione di mulini realizzati con i gusci di noce.

Molti di questi oggetti nel tempo li ha costruiti per i suoi scolari con fini didattici. Guatelli ha infatti partecipato al “movimento della scuola attiva”, il mondo entra nella scuola e gli allievi vanno per il mondo. Ciò che sottolinea è che i bambini spesso si meravigliano nel vedere la testa della tigre, le corna di un cervo e che lo stupore provoca emozione e l’emozione conoscenza.

Ma ogni stanza è una camera delle meraviglie, la più grande dell’edificio è anzi una cattedrale delle meraviglie in cui lo spazio arioso apre lo sguardo ad una fantasmagoria di segni, che si staccano dal senso cosificato e percorrono il mondo dell’astrattismo, dell’armonia, della simmetria imperfetta, architettura spirituale, grafica, creativa. Gli oggetti non vengono ordinati infatti per ciclo produttivo e per mestieri, ma per forma. È la forma che indica la strada verso la “sostanza” delle cose. È la forma però che rimanda anche a mondi archetipici e intimi.

Il fine estetico è per Guatelli strategia di comunicazione. Attraverso lo stupore, la sospensione, intende entrare in contatto con il visitatore perché di quegli oggetti, uno per uno, ne conosce la storia, una storia di uomini, di dignità degli umili, di un mondo che non è più facile incontrare, quello contadino. Un tagliere usurato fino a scorgervi un foro che lo trapassa indica che per la donna che l’ha usato è tempo di matrimonio, oppure una cornassa, può raccontare forme di comunicazione tra gli abitanti delle colline contigue, un paio di pantaloni usurati e rattoppati mille volte nello stesso punto, possono indicare l’automatismo di alcuni gesti e movimenti legati ad un mestiere, un elmetto tedesco con l’aggiunta di un manico può diventare uno scaldavivande.

Ogni stanza prende il nome dagli oggetti che contiene o che la contengono. La stanza dei vetri apparteneva alla zia, quella delle latte “camera della grafica, delle insegne, del piacere di guardare” era quella dei genitori, l’anticamera, il cui soffitto è ricoperto di lucerne e campanacci, è delle zuppiere e la sua stanza da letto è quella degli orologi. E così attraverseremo intere pareti ricoperte di scatole di latta, testimonianza di fabbriche che non ci sono più, in cui potremo assistere all’evoluzione grafica e simbolica dei contenitori di pomodoro, per esempio. Poi passeremo per un ballatoio (anticamera) colmo di zuppiere e di tazze ed infine, a sequenze ordinate di orologi di plastica, da stazione, di ogni genere. Tutti fermi ad un tempo mitico. Ricchezza e povertà, vecchio e recente, nobile e dialettale, un coro unico di voci armoniche e anche dissonanti.

Dire Guatelliano significa parlare di stile, di filosofia, di pensiero vitale, di arte contemporanea e persino di metodologia della ricerca etnografica. Nel suo studio, contiguo alla camera da letto, riverso sulla sua Olivetti Lexikon 80 ha dattiloscritto molte e molte schede, ciascuna in 7 copie, con informazioni su un oggetto specifico. La provenienza, le modalità di utilizzo, frammenti di storie legate ad esso.

Per Guatelli sono “le cose minime” che ti danno la chiave su cui sono costruire le impalcature delle cose, dei discorsi, come per esempio il perno che sostiene la ruota del carro e che ne consente il movimento.

Quanto vi restituisco in questo scritto è parte di frammenti ricavati da interviste ascoltate su youtube, quelle a Guatelli pillole di saggezza, a Mario Turci, direttore del museo, informazioni ricavate dal sito ufficiale del museo. Nel caso voleste saperne di più vi suggerisco di fare scorrere le pagine del fumetto scritto da Pietro Clemente in cui Guatelli diventa un pifferaio fatato o di guardare il video realizzato dal regista Filippo Chiesa, Ettore’s wunderkammer. Di Ettore Guatelli si è scritto. Ne hanno scritto critici, antropologi, poeti. Difficile trovare parole non dette da eccellenti studiosi e artisti.

Il museo Guatelli è innanzitutto un iper luogo che costruisce identità. Estensione del pensiero, taccuino colmo e traboccante di segni che componendosi de-scrivono sui muri, elenco apparentemente disordinato di tracce d’umanità, testimonianza storica che evoca nostalgie di un passato prossimo, ma dimenticato e da dimenticare perché simbolo e sintomo di povertà;  simulacro di sapere, caos e trionfo di pazienza e dedizione, folla di voci, marasma, inquietudine assottigliata, frastuono silenzioso e arioso, archivio cosificato dell’anima, anatomia dell’immaginario, fantasmagoria di forme che evocano cose, che a loro volta evocano azioni, che evocano mestieri, che evocano persone, singoli uomini, nomi propri.

Quando ho visitato il Museo Guatelli, ho immaginato che ogni oggetto potesse essere sostituito da un nome proprio e che quell’elenco di nomi mi ricordava un libro di Gogol, “Le anime morte”.  Lo avete letto?

In questo romanzo il protagonista Cìcikov pensa di fare un affare con l’acquisto di un certo numero di anime (servi della gleba dell’Impero russo che vengono censiti ogni 5 anni) ma che sono già defunte. E non appena si ritrova di fronte alla lista di nomi dei contadini, ricca di annotazioni e di rimandi a patronimici e familiari, comincia ad immaginare chi fossero quei nomi, a chi fossero appartenuti.

Guatelli dunque come Gogol che visionario lascia traccia di uno spaccato di umanità, una umanità che la gente del luogo vuole dimenticare e non riconosce più o rifiuta, ma una umanità povera sì ma ironica, piena di risorse, di immaginazione. Di Gogol vorrei proporvi una piccola parte del passo più lirico e più bello, a mio parere, di questo suo libro, progetto rimasto incompiuto.

Quanto a me, e di quel che mi ha lasciato e colpito di più di questo viaggio, nella camera delle meraviglie guatelliane, vi propongo delle fotografie che deformano e trasformano, ancora una volta, in una mia personale visione, quanto ho visto e ho letto sui muri in una fascinazione magica, oniroide, artefatta. Omaggio ad un uomo davvero originale.

 

Foto di Cristina Pantellaro

Foto di Cristina Pantellaro
Foto di Cristina Pantellaro