Insufficienze renali, di Tiziana Nicolosi

Insufficienze renali, di Tiziana Nicolosi

 

 

Insufficienze renali

Non lo allettava. Dovere viaggiare più volte al mese. Su e giù per l’Italia. Attraversando corse alberate tra gli occhi umidi del treno anziano, poste lunghe e vuote di non preghiera. Pause infinite sulle ore lontane, sui luoghi estranei che porgono mani, ad offrirti ai loro altari. Non esserci. Per nulla. Per non acconsentire. Per non saltare dallo stridulo cappio della tua testa. Perché lì non sei che il protagonista dal volto di carne deforme, scelto a caso dalle pagine tra le tue mani. Ti resta un libro per darti una faccia. In attesa che il viaggio riprenda, e tu vi sia dentro. E devi nascondere il viso, perché non vedano che non hai occhi, né bocca, che travisati da un movimento compulso e roseo, creino scompiglio e rivelino. L’amorfa natura.

Per un prestigio di cui aveva letto, udito, ingrassando il suo ventre di fame e sgomento. Lo avrebbe fatto. Era stupido, ma solo nel suo ostinato ingombro a stare al mondo. Così non avrebbe contrastato un dovere, parte di un disegno accessorio, la necessità di sé, sul ricordo fanatico di un bambino, e la sua sospensione.

Salì ancora sul treno. Da una parte Milano, gli uffici dai design chiari. Il padre curvo all’altra sponda.

Martellante senso di estraneità. Eppure quel tratto è così familiare. L’ha percorso nel giorno e nel catrame della sua luce. Senza mai chiedergli tregua di desideri e tormenti. E torpori, su quei mistici ponti di transizione maniacale. Lui mette il cervello, come il suo vecchio gli ha suggerito, estirpandolo dalle membra lo inserisce nella macchietta metropoli e lo fa funzionare coi frutti della interdetta Madre terra. Così di tanto in tanto torna a riscuotere, con mole di contabilità atta a risarcire dei tempi emotivi non rispondenti a un ritorno comprensibile, compreso, preso. Se è interdetta.

La carrozza era affollata da una donna mora di piccola taglia la cui presenza poteva probabilmente confondere qualche animo inquieto, ma non il suo, fatto di dee alte e determinate.

Un tizio sui quaranta entra, fa un cenno col capo, si siede. Inizia a parlare. Con lei che gentile lo segue su motivi qualsiasi. Il colore del cielo. Il contrasto. L’ha inventato il cielo o il modo umano di fotografare? E il tizio già esce.

Mentre lui rimane rigido nell’attimo estraneo dello sguardo traverso, e dal suo libro, lei, pelle nuda, camminata da strati angusti di merlati neri e fiori a colori, su una forma leggera. Su un odore sottana, appena muove i fianchi fieri sul suo sguardo Sicilia. Un quaderno tra le mani, e il sole che suda, sul corpo morbido, sui piccoli canditi che casti al trotto, fanno capolino dalla veste.

Treni. Amici miei. Registri spettrali che mi togliete dall’imbarazzo della presenza e dalla convulsione dell’assenza. La sento ancora, quella goccia incontaminata di sangue che mi marcia in vena. Che parte e corre. Dall’affresco coperto che mi assale in notte sotto effigie di casa d’infanzia e di lenzuola ibernate. Dalla dimora estiva che le ha rese dimentiche. Giù per la mano calda che le respira clandestina.

Chiudo il libro. Lei chiede spazio per andare al bagno. E mastica, nella maniera della borgata. Con il colore pallido delle labbra. L’ombra nera dei suoi artigli di pelo cade sulle spalle bucate, lentiggini pascie di gioventù in riposo. E scende sulla schiena, quando le si muovono le anche. Attraversando le mie gambe immobili in mezzo alle sue. Mentre va, verso fuori dalla nostra milizia treno compatto. Io integro, tengo tutto inerme. Le palpebre basse. Nessuna cosa persona a parlarmi. Se non me. E la mia afflizione. Un lavorio autonomo. Sacro. E imperturbabile. Una catarsi misogina. Circostanziata e applicata. Rigore. Basta una mossa, innocenza del sonno. Potrei toccarla, audacia del sogno. Invece passa pulita. L’odore del sugo al basilico, i tessuti del mercato di periferia.

Del frutto, la bocca. I capelli, tra cute tiepida e scuri pendii bifolchi. Potrei sentirla, sfiorarla distratto, bloccarla in una mossa. Ma mi offenderei. Tradirei. La mia devota nenia. Esce illibata. Lei, equivoco donna che mi si dà ignara.
Il suo quaderno sul sedile.
Lo afferro. Lo afferro. Lo afferro.

Leggo.
Ed è in mezzo ai rami ventosi del plesso magmatico entro cui sprofondo il corpo di gomma. Scorgo demoniache visioni. I volti scarnificati, ora spilunghi, bocche enormi, spalancate e bavose. Gli occhi cadenti fuori dalle orbite, sventrate di lame. Maschere vive di cantina in disuso. E fuga.

E peggiore e scandito è il ritorno, reo confesso di apparizioni d’ossa. Sagome intuite, tra un albero, un fruscio, uno scrocchio di giunture umane. È il mio sguardo caparbio sulla zolla estranea. Me. Vado inopportuna, quando simulacri e finestre si sprangano. Quando calori e pareti si stringono nella morsa della promiscuità genealogica. Io ne avverto piano il distacco, verso il buio a silenzio. La privazione, la distanza, tra abbandono e inappartenenza. L’indice feroce sul mio tradimento. Sono bastarda e disonorata. Mi guardo da fuori. Non ci sono mai stata. E se sento piangere non posso essere io. Mutano i vestiti in dosso, sentendone la vergogna nuda tra gli alberi fuori, il vento e il fondoscala pauroso. Non posso aiutarmi. Le lacrime spaccano la terra arsa. Sono suoni che il terrore m’inietta in una fisicità involucro. Di proprietà altrui. Mi addentro. Tra l’inconsistenza e la ricerca della sua loquacità, verso l’orrido increscioso e implacabile del vivervi una qualche orfana permanenza.

Non si può credere di creare sistemi funzionali e funzionanti per più del tempo che li ha prodotti. Non si può pensare che i figli rimangano figli, che dunque crescano  di buona educazione e genitori etero. Ci scontriamo in continue adozioni e lo facciamo vittime di un’omosessualità perversa e indomata quale la solitudine cui siamo votati. Come masse prive di senno. Sbattiamo su muri di leggi monche che ci guidano all’ozio virtuale, più calvi e grassi. Apparecchiati sulle finzioni sinaptiche che vivono dentro gli schermi.

 – Il piacere è mio!
– Scusa. È che faccio l’editor. Lavoro a Milano. Mi alzo alle sei. Ogni mattino.
– Mhm. Non mi sembra applicabile l’infermità mentale. Comunque dato che t’interessa tanto, sto scrivendo un libro, sono quasi alla fine. Fammi pubblicare e ti perdono.
– Mi pare improbabile, e non decido io. Però, interessante la tua scrittura.
– Ah certo. Tu scrivi?
– Scrivevo. Ora leggo. Leggo. Già. Leggo.

 Chi cazzo è questa.
Le mani mi sudano. Oltraggiosi treni odiosi. Sono costretto a tenere i muscoli stretti. Altrimenti mi si tocca la coscia sotto i calzoni.
Il muscolo della gamba destra reagisce. Contrattura.
Leva quei piedi stronza. Levali dal mio posto. – Vabbé, scusa vado io ora in bagno.

Odore fradicio in questa salvezza.

Si sbatte l’acqua sul viso e continua ossessivamente infangando l’intimità di piscio che lo circonda.
– Come faccio adesso a cambiare posto?

TOC TOC
– È occupato.
– Aprimi, sono io. Sto malissimo, per favore, fammi entrare.
– Merda. È lei.

CLICK
– Che succede?

SBRANG. Alle sue spalle. È già dentro.
– Se tu volessi potresti farmi pubblicare.
– Per favore esci. Mi viene da vomitare.
– Abbassati.
– Vattene, ti prego.
– ABBASSATI.

Le ombre appannate da dentro la gonna di sposa. Seta di baco. L’urlo assordante del treno.
Lui non può più parlare. La sua testa lì stretta. Lì sotto di lei
– Mio caro, i saluti sul sedile. E smettila di piangere.

Non potere essere altro da me. Quando l’ignavia ha il volto marcio del tuo odio riflesso, non vale provarci. Riscopro la mia dignità. Che ha la sagoma severa della sua magrezza. Nessun’altra punizione. Niente fronzoli firmati a compenso. Col grazie ipocrita di un altro inutile esistenziale. Una sacca vuota. Secca. Snella di escrementi spacciati per prodi concimi. Senza mammelle, sederi e matrone. Io miniatura organica. Le belle invenzioni lontane. Che si arrossano il membro del verso mestruale che vi anima i nervi. Macchine avariate che proiettate maschio, frustrando la femmina che si cerca invano, portando dentro la macchia di Eva, la mercenaria logora della storia di sé. Avete trafugato il gioco dell’umanità. Approfittando della sevizia perpetua della nicchia di vostra madre. Mi avete ferita col mio corpo violento e il coltello docile del mio molle cranio. Continuo a parlarvi  col pugnale basso lungo il fianco. Ora ancora mi fermo e vi ascolto. Sfinita. Spremendo pazienza alla carezza sul vostro ego pedante. Schizofrenico e rituale. Fragile intellettuale. Ora ancora vi guardo, incredula e compenetrata. Voi pieni di speme informe. Sazi di sterili marchette. Mendiche donne marxiane vi prociano intorno. Struggetevi pure ai miei occhi. Poveri come il vostro carico di approssimazione, quella masturbazione pigra e sofferente di cui vi schernite sul cesso, tra sveglie sfatte e sapori acidi di stampa da prime albe.

Leave a reply